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Mons. Arcivescovo ha pure accolto la richiesta presentatagli da parte di don Maurizio Spanu, parroco di Tonara, di poter usufruire di un anno sabbatico e di completamento dei suoi studi in Sacra Scrittura.
COSA NE FAREMO?
Le sette parabole del Regno, inserite nel capitolo XIII, costituiscono il cuore del vangelo di Matteo. In questa domenica siamo chiamati a contemplare le ultime tre: il tesoro nel campo, la perla preziosa e la rete piena di pesci buoni e cattivi.
Gesù oggi non spiega le parabole ma pone una domanda: Avete compreso tutte queste cose? Gli risposero: Sì. Ed egli disse loro: Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.
Ecco alcune dimensioni importanti per capire bene: Un uomo: chi è l’uomo? Un cercatore di novità, verità. zappa il campo: non si accontenta del prodotto spontaneo del terreno, vuol renderlo fertile, ricavare di più. Siamo cercatori dell’infinito. Se il campo sono io, allora perché accontentarmi di quello che ho? Necessita cercare in me, fare silenzio, meditare. Avvicinandomi alla verità che è in me, un lumicino pian piano rischiara il tutto, tutto il tesoro che è in me. Trova un tesoro: apparentemente per caso. Il tesoro nascosto è l’immagine di me stesso: esso si trova in mezzo al campo, in mezzo alla sporcizia. Debbo vangare la terra per trovare il mio vero sé. Mi accorgo d’essere ricco e di essere ricchezza. Entro in me, riconosco di essere humus, terreno fertile, ricco di sentimenti Il ritrovamento genera sorpresa – gioia. Ancora: Il mercante che va in cerca di perle preziose traffica, cerca una perla sempre più bella, la più splendente, non si accontenta. Il ritrovamento è premio per il suo lungo cercare…. La perla: soddisfa la sete di infinito. La perla nasce nella ferita dell’ostrica: un granello di sabbia che fa male, ma poi viene rivestito di smalti luminosi e meravigliosi. In mezzo alle mie ferite posso trovare il mio sé, l’immagine che Dio si è fatto di me. La ferita frantuma tutte le immagini che ho indossato e con le quali occulto il mio vero sé. L’impronta di Dio incarnato in Cristo genera stupore: veramente tu sei il Dio nascosto. Dio è il tesoro, tu sei lo scrigno, vuol renderti perla. Ancora: una rete gettata in mare: la rete è fatta per raccogliere ciò che è nel mare e portare alla mensa. La rete è Cristo mandato da Dio a celebrare con cui si unisce alla carne umana in modo stabile e duraturo. Ha il compito di riunire i figli di Dio dispersi e condurli a Lui. L’acqua dolce serve per dare vita (bere, innaffiare) come per dare morte (naufragio – annegamento). quando è piena: il datore di lavoro è paziente, attende la pienezza del tempo, attende che tutti i pesci siano entrati. La salvezza è per tutti. I pescatori la tirano a riva: dipendenti che compiono il compito loro assegnato dal datore di lavoro mettendo a rischio la propria vita. I servitori fedeli li portano a realizzare il fine della loro esistenza: essere commestibili per dare vita. Seduti: è seduto chi è sicuro di sé. Il Maestro dalla barca insegna stando seduto. Il giudice è seduto in tribunale. La croce è il trono di Cristo.
Raccolgono i pesci buoni: i pesci con squame e pinne hanno conservato la capacità natatoria, hanno attraversato il mare luogo pieno di insidie forti di carattere hanno irrobustito le difese per vivere. Hanno combattuto la buona battaglia della fede.
Li mettono nei canestri: li conservano per il pasto, sono utili. Dei pani avanzati alla cena di Gesù furono riempiti 12 cesti. Nulla di buono va gettato. Gettano via i cattivi: privi di difesa e capacità natatoria. Sono morti. Infettano. Privi di ideali hanno rinunciato a combattere, si sono adeguati alla mentalità corrente. Non hanno sfruttato il loro tesoro: la capacità natatoria e il tempo loro concesso. Finiranno nella fornace ardente. Il verbo è al futuro. A loro maggior vergogna prima vedranno dove vanno i perseveranti poi, colmi di vergogna, finiranno nel fuoco inestinguibile, nella Geenna, nella discarica di Gerusalemme
Nel mare di questo mondo non è possibile separare i buoni dai cattivi. Viviamo insieme come il grano con la zizzania. Occorre responsabilità, uso corretto della libertà, buona conoscenza di sé, innamorarsi della meta, capacità di chiedere aiuto.
Cogliere le occasioni che il Signore ci offre per incontrarlo. Metterci alla ricerca di ciò che conta veramente per esperimentare la gioia della conquista e del godimento.
Chi fa questa offerta è pronto a farne parte agli altri.
ogni scriba, ogni conoscitore della parola di Dio
divenuto discepolo del regno dei cieli, avendo accolto Cristo, il tesoro nascosto.
è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche sa comprendere le promesse del 1° testamento e vederne il compimento nel 2° testamento.
Dio mi offre la salvezza, a me il compito di scegliere-preferirla ad ogni altra ricchezza
Quale invito mi rivolge questa Parola? Quali valori mi presenta?
Contempla Dio prodigo nel donare in Cristo se stesso
Preghiera.
O Padre, fonte di sapienza, che ci hai rivelato in Cristo il tesoro nascosto e la perla preziosa, concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo regno, pronti ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono (dalla Liturgia).
La parola di Dio di questa domenica XV del Tempo Ordinario è ricca di stimoli spirituali e pastorali. Il vangelo di Matteo ci presenta Gesù in riva al mare, sua una barca, con un uditorio numeroso che incomincia a raccontare una parabola. Questa volta è una parabola facile da intendersi, anche perché è spiegata direttamente dal maestro. Presentazione, svolgimento del tema, spiegazione di esso e conclusioni di vita pratica e spirituale.
Cosa vuole insegnarci Gesù?
Non certo a fare il seminatore, il contadino, lavoro nobilissimo ed importantissimo per la produzione del necessario a vuole, non ha aperto una scuola agraria per dire come e quando si semina per poter ottenere dei buoni risultati.
Egli parla, utilizzando il linguaggio agricolo, della seminagione di altro seme, che è la parola di Dio. Ci invita cioè a capire quanti sia importante seminare questa parola nel cuore della gente, ma soprattutto come accogliere il seme buttato sulla terra, specie se non è ben predisposta ad accoglierla.
I risultati possono essere discreti, buoni o ottimi, oppure zero e fallimentari per se stessi e per gli altri. Nel merito della vicenda del seminare seme buono Gesù alla fine dice cose che spiegano le diverse risposte date dai vari terreni, cioè il cuore e la mente delle persone, che sono in grado di ascoltare e far maturare dentro di loro la parola di Dio, che chiama alla conversione e alla vita di comunione continua con Lui.
Cosa succede, allora, quando la parola non oltrepassa e freddi ostacoli del nostro ragionare?
Succede che ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. In questo caso il furto effettuato dal Diavolo è quello della grazia e proprio perché strappato, con la nostra volontà esso non può dare alcun frutto o ciò che spera opera di bene.
Non diverso dalla prima condizione, la seconda è quella del seme, seminato sul terreno sassoso. Questo seme, in termini metaforici, indica colui che ascolta la Parola e l'accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno.
Sono quei cristiani o credenti in generale che si entusiasmano facilmente e facilmente si deprimono e scoraggiano quando le cose non vanno secondo i loro progetti di vita e di attese varie.
Il seme seminato tra i rovi rappresenta, poi, colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. In poche parole, quando ci facciamo distrarre da altri interessi, soprattutto di ordine materiale e temporale, noi ci allontaniamo da Dio, che è parola di vita.
Infine, qualche speranza che la parola di Dio possa prendere piede e realizzare, più o meno, in parte o in tutto, quello che essa contiene è poi quello che riguarda il seme seminato sul terreno buono. Questo seme è rappresentato da colui che ascolta la Parola e la comprende; di conseguenza la mette in pratica e quindi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno». Gesù, quindi ci vuole dire, con questa parabola spiegata direttamente da lui, che per vivere veramente della sua parola, bisogna comprenderla, meditarla, farla crescere, sviluppare e rapportarla al proprio vissuto feriale e festivo. In poche parole farne di essa il riferimento importante nel nostro agire quotidiano.
Preghiera:
Accresci in noi, o Padre, con la potenza del tuo Spirito la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola, che continui a seminare nei solchi dell'umanità, perché fruttifichi in opere di giustizia e di pace e riveli al mondo la beata speranza del tuo regno. Amen.
Curia Arcivescovile di Oristano
Comunicato
La Celebrazione della solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo
Domenica 14 giugno 2020 ricorre la Solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini).
Tradizionalmente nelle nostre comunità questa celebrazione ritrovava un suo momento significativo e solenne nella processione Eucaristica, quale manifestazione pubblica della fede del popolo di Dio, nella presenza reale del Signore Risorto in questo Sacramento.
In esso la Chiesa trova la sorgente del suo esistere e della sua comunione con Cristo, realmente presente nell’Eucaristia.
Quest’anno, considerando le norme tuttora vigenti per il contenimento della diffusione del Coronavirus, non sarà possibile svolgere alcuna processione. Non pare neppure opportuno che essa venga sostituita da altre forme che, pur volendo esprimere devozione, non renderebbero evidente ciò che solo una vera processione intende anche simbolicamente esprimere: sentirsi e riscoprirsi popolo di Dio in cammino, grazie alla forza che proviene da quel Pane.
Si deve pertanto evitare, ad esempio, che il singolo presbitero, magari accompagnato da altri ministri, attraversi a piedi alcune vie della parrocchia recando l’Ostensorio oppure servendosi di un’auto scoperta o di altri mezzi simili.
È pure evidente che l’impossibilità di svolgere una vera processione, come certamente è nel desiderio di tutti, non deve far venir meno l’esigenza di dare risalto a tale Solennità. Si suggerisce pertanto che nelle diverse parrocchie o in una delle parrocchie della medesima Unità Pastorale, al termine della celebrazione Eucaristica si preveda un tempo di adorazione la cui durata e struttura può essere valutata in relazione alla situazione concreta e alle esigenze della comunità parrocchiale, ma che sia realmente tempo di silenzio, di ascolto e di preghiera. Qualora la celebrazione avvenisse all’aperto il Ss.mo Sacramento venga riportato nella chiesa parrocchiale in modo privato.
Mons. Paolo Ghiani
Vicario Generale
UNA PENTECOSTE PER SCALDARE IL CUORE DEI FEDELI
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II evidenzia nella Pentecoste il carattere di conclusione della cinquantina pasquale e privilegia il versante antecedente rivolto verso la Pasqua che l’ha inaugurata e che nel cinquantesimo giorno si compirà in pienezza. Tale prospettiva totalmente pasquale accentua la preparazione e oscura il suo alone celebrativo successivo. La scelta non fu pacifica ed ebbe molte discussioni, tuttavia così fu stabilito. La possibilità di prolungare la grande solennità nel lunedì e martedì successivi, oltre che assecondare radicate tradizioni di talune regioni della Chiesa, non estingue totalmente quella esigenza di continuità con i secoli precedenti, che ebbero sempre in grande considerazione la solennità della Pentecoste, con la sua ottava. Mi pare opportuno ricordare, per cogliere la ricchezza di aspetti diversi e complementari, che si sono alternati nella disciplina liturgica nel corso dei secoli. La Pentecoste ha un duplice carattere: da un lato è festa di chiusura dei 50 giorni pasquali, dall’altro è festa di apertura verso il tempo della Chiesa, nell’attesa dell’ultimo ritorno del Signore. Le scelte della tradizione liturgica si sono diversificate in base all’accentuazione dell’uno o dell’altro aspetto. Se nell’epoca antica la Pentecoste era intesa come l’intera cinquantina, come estensione festiva della Pasqua, nei secoli successivi, mediante la creazione dell’Ottava a ridosso del gran giorno conclusivo, considerato ormai come un giorno solenne a se stante, la Pentecoste, appariva come l’inizio di una fase nuova della vita della Chiesa aperta al futuro e proiettata verso il mondo intero, tutta intenta nell’opera di evangelizzazione. La solennità porta quindi in sé stessa un duplice carattere: il compimento del mistero pasquale e l’inizio della missione evangelizzatrice nel mondo. Per questo, se è lecito scegliere un aspetto rispetto all’altro, non è saggio escluderne alcuno, ma considerare piuttosto come i due versanti della Pentecoste siano ugualmente portatori di aspetti singolari e complementari, ambedue interiori e consoni al mistero pentecostale. In questo giorno, infatti, si realizza la promessa del Risorto e discende lo Spirito Paraclito per l’opera di santificazione che scaturisce dalla Pasqua; al contempo in questo medesimo giorno la Chiesa muove i primi passi verso i confini della terra e inizia quel percorso storico che abbraccerà tutti i secoli ormai irreversibilmente orientati al ritorno glorioso del Signore. Chiusura e apertura sono quindi elementi indissolubili e ugualmente importanti per capire la Pentecoste. In tal senso si dovrà accettare con pari rispetto, sia la modalità antica – oggi nuovamente assunta – di chiudere la Pasqua col giorno cinquantesimo della beata Pentecoste, sia quella, che abbraccia molti secoli, secondo la quale il giorno di Pentecoste si prolunga nella sua Ottava. Occorre anche considerare gli effetti conseguenti alle due impostazioni liturgiche. La Pentecoste senza ottava evidenzia certamente con più precisione il valore simbolico dei cinquanta giorni, essendo l’ultimo giorno della festa, ma al contempo la solennità in sé stessa perde importanza, tendendo a diventare semplicemente l’ottava domenica di Pasqua. Questo fatto lo si può costatare nell’odierna prassi pastorale in cui la Pentecoste non ha più l’evidenza delle grandi solennità, quali Pasqua e Natale. A uno sguardo superficiale sembra che le tradizionali tre solennità maggiori siano ridotte a due (Pasqua e Natale) emergenti nell’anno liturgico proprio in virtù dell’Ottava che le prolunga. La scelta del nuovo calendario liturgico in tal senso ha contribuito a una riduzione della Pentecoste, privandola di quegli elementi di evidenziazione, che nel precedente calendario erano certamente efficaci nell’innalzare il grande giorno dell’effusione dello Spirito. Infatti, quando nel calendario liturgico, dopo la riforma delle rubriche (1960), si stagliavano solenni e uniche le tre Ottave (Pasqua, Natale, Pentecoste) era a tutti immediatamente evidente che tali feste costituivano i vertici assoluti e sovrani, emergenti su tutte le altre solennità e feste. L’Ottava di Pentecoste, che fu celebrata dalla seconda metà del secolo VI fino al Vaticano II, oltre alla sua venerabile antichità e stabilità nei secoli, non era poi così estranea a un retto simbolismo liturgico. Infatti, essa era un’ottava incompleta ed aperta (dalla domenica al sabato). In tal modo da un lato si consacrava il valore non soltanto delle otto domeniche pasquali, ma anche delle otto settimane pasquali, intendendo la settimana come un tutto aderente alla domenica, che la inizia quale suo primo giorno. Il fatto poi che l’ottava di Pentecoste, a differenza delle altre due ottave (Pasqua e Natale) fosse incompleta terminando appunto al sabato, affermava il mistero della stessa Pentecoste come un evento aperto e continuo, che si sarebbe concluso unicamente al termine della storia, quando col ritorno del Signore nella gloria l’ottava di Pentecoste si sarebbe effettivamente conclusa e con essa la consumazione piena del mistero pasquale. Il tempo per annum, infatti, rappresenta in qualche modo il tempo della Chiesa pellegrina nel mondo, che sotto il continuo influsso soprannaturale dello Spirito Santo, come in una perenne Pentecoste, cammina nei secoli, operando la santificazione dell’umanità, fino al compimento del Regno di Dio. In tal senso aveva un significato quanto mai opportuno e corretto anche la denominazione delle domeniche del tempo ordinario come domeniche dopo la Pentecoste. Esse infatti, realizzano soprattutto nei sacramenti quell’opera di santificazione che ebbe inizio con la Pentecoste e che continua nel tempo sotto la perenne epiclesi dello Spirito Santo. Il tempo della Chiesa è, infatti, un tempo pentecostale che proprio dal mistero della Pentecoste attinge continuamente la grazia che lo Spirito le infonde, fluendo senza sosta dal Risorto, che sta alla destra del Padre. Il ricorso ad un termine tecnico come domeniche per annum e tempo per annum rispetta certamente la dinamica dei primi stadi dell’Anno liturgico, quando la serie indifferenziata delle domeniche celebrava la totalità del mistero senza sottolinearne aspetti particolari, ma ciò potrebbe insinuare un carattere archeologico in riferimento ad una fase antica destinata ad essere superata nella logica dello sviluppo organico dell’Anno liturgico, caratterizzato proprio dalla relazione delle singole domeniche e tempi sacri con i misteri celebrati negli snodi portanti e determinanti della fisionomia dell’Anno liturgico sempre più definito e perfezionato.
Queste riflessioni hanno voluto mettere in luce come scelte diverse stabilite dalla Chiesa nei secoli non sono in contraddizione, ma rappresentano modalità liturgiche differenti, ma complementari, portatrici di aspetti diversificati, che arricchiscono la lettura simbolica della Pentecoste. In questa luce la comprensione della Pentecoste, come di ogni altra festa, non si esaurisce nella disciplina liturgica vigente, ma si carica di una ricchezza che può essere colta soltanto nelle successive tappe dello sviluppo storico ed anche dalla diversità dei riti legittimamente ammessi dalla Chiesa. Stabiliti i termini della questione si deve anche affermare con determinazione che nell’attuale riforma liturgica la Chiesa latina ha fatto delle scelte che devono essere da tutti accolte e rispettate nella concreta prassi celebrativa e non è lecito ad alcuno procedere a mutare quello che le vigenti leggi liturgiche stabiliscono a proposito del modo di celebrare oggi la Pentecoste.
Enrico Finotti, liturgista